CAPITOLO II

L'ICT e l'Occupazione

2.4 La flessibilità salariale ed organizzativa e la professionalità

Per superare la disoccupazione strutturale è convinzione comune che sia indispensabile la flessibilità nel mercato del lavoro, cui si possono attribuire vari significati. La tradizione classica parla della rilevanza della flessibilità dei salari e della mobilità della manodopera. Invece, gli storici hanno dato rilievo alle migrazioni internazionali ed all'urbanizzazione.
Negli ultimi anni, un effettivo aumento del grado di flessibilità dei rapporti di lavoro ha caratterizzato le politiche dell'occupazione in Italia ed in Europa ed ha portato conseguenze importanti, come la concorrenza dei Paesi a basso salario e l'incremento del livello di partecipazione delle donne in tutti i Paesi industrializzati. Questo è dovuto in parte ai datori di lavoro (che hanno cercato continuamente manodopera a minor costo) ed in parte alle recenti ristrutturazioni organizzative dei processi produttivi (che sono connesse proprio alla massiccia diffusione delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione).
Si è già visto che una delle caratteristiche tipiche del paradigma ICT è la flessibilità progettuale, produttiva, commerciale e distributiva dei servizi (che permette di ridurre la mobilità geografica).
Esistono poi altri due importanti tipi di flessibilità: uno legato alle modalità di organizzazione del lavoro e l'altro all'apprendimento di nuove competenze da parte dei lavoratori. Entrambi sono necessari ad affrontare i cambiamenti del product mix e delle tecniche produttive.
Conseguire la flessibilità organizzativa e delle competenze è estremamente più difficile che ottenere quella classica nell'offerta di lavoro: esse, comunque, dipenderanno solo dalle capacità di ciascun Paese di promuovere veloci cambiamenti tecnici ed istituzionali e di innalzare rapidamente le produttività, destinando però i relativi guadagni all'ampliamento dell'occupazione.
La tradizione classica e neoclassica dell'occupazione e del progresso tecnico si basa su vari meccanismi di compensazione per ripristinare l'equilibrio sul mercato del lavoro, bilanciando domanda ed offerta di manodopera.
Il ruolo della flessibilità dei salari e dell'interesse è essenziale, anche se il mercato del lavoro non può essere assimilato agli altri. Comunque, il tema della distribuzione delle quote di profitto è stato sempre fonte di acuti problemi sociali.
Secondo alcuni economisti (Layard e Philpoytt, 1991), per contrastare la disoccupazione di lungo periodo, più della flessibilità sono necessari una forte attenzione all'addestramento, l'obbligo di accettare lavoro o formazione ed anche spinte e stimoli finanziari, sia per il datore di lavoro sia per il disoccupato.
Secondo altri, invece, sia in Nord America sia in Europa, esiste la necessità di ridurre i salari relativi (ed i benefici sociali) ai lavoratori meno qualificati ed ai giovani, poiché si ritiene che sia l'assenza di flessibilità salariale all'ingiù a non ampliare il potenziale di creazione di lavoro a bassa professionalità/basso salario.
Così non è stato nella realtà dove, a causa di una penetrazione più consistente dei prodotti importati, sono proprio i settori a basso salario ad aver maggiormente sofferto del calo occupazionale.
Paradossalmente, quindi, perseguire la flessibilità salariale sembrerebbe volere attuare una politica fondamentalmente protezionista di autarchia. Questa creerebbe un'occupazione di certo superiore a quella persa col calo delle esportazioni verso il resto del mondo, ma produrrebbe un ovvio calo del benessere. Inoltre, la perdita degli stimoli competitivi dinamici, derivanti dalle importazioni, danneggerebbe la crescita e la competitività. Invece, in un mondo aperto, la diminuzione dei salari porterebbe all'"importazione del sottosviluppo¹" (Freeman e Soete, 1994, pp. 120 - 121).
In conclusione, è evidente che gli argomenti a favore di un ribasso dei salari risultano essere sostanzialmente deboli.
Per evitare la disoccupazione, sono indispensabili mutamenti istituzionali che assicurino nel lungo periodo le aspettative positive e la stabilità necessaria nelle relazioni industriali. In questo senso, alla soluzione del ribasso dei salari è senz'altro preferibile un passaggio veloce ad attività altamente qualificate, a forte valore aggiunto, anche se le politiche tipiche per recuperare parte dei profitti durante i cicli negativi si fondano prevalentemente sull'indebolimento (se non addirittura sull'assoluto divieto) dei sindacati.
Tuttavia, questo rischia di diminuire la domanda aggregata di beni di consumo, di aggravare la crisi e la disoccupazione keynesiana.
Oltrepassando la teoria tradizionale della flessibilità salariale, risulta di estrema rilevanza quella organizzativa e dei contratti di lavoro, come anche la qualificazione dei lavoratori² .
In un'economia di mercato, queste possono essere fornite dal subcontracting³ , che consente alle aziende di adeguarsi alle modifiche nella composizione e nei tempi dei nuovi ordini da evadere. Le PMI permettono l'ottenimento della flessibilità: con la loro nascita ed il loro sviluppo, esse sono state riconosciute dappertutto come indispensabili per rinnovare lo sviluppo occupazionale e la flessibilità stessa del sistema.
L'uso dell'ICT ha accentuato la domanda di forme di impiego che non definiscano orari di lavoro standardizzati e che siano accompagnate da minori vincoli contrattuali.
Alcune indagini recentemente svolte dall'Isfol (Colella, 2001)4 consentono di analizzare l'impatto effettivo sul mercato del lavoro italiano del ricorso a lavoro part-time ed a quello a termine.

Grazie al recepimento della Direttiva U.E. n. 81/1997 sul part-time5 , attualmente i contratti con questa modalità contrattuale costituiscono l'8,4% dell'occupazione complessiva.
Nell'anno 2000, quasi un quarto dei nuovi occupati è stato assunto con questa modalità contrattuale. Precedentemente, il 47% di essi era inattivo od in cerca di occupazione, il 28% aveva un contratto a tempo indeterminato, il 9% un contratto a termine ed il 16% un lavoro autonomo.
I dati Isfol mostrano un incremento tendenziale della probabilità di trovare un'occupazione con un lavoro part-time.
Purtroppo, però, diminuisce la probabilità di passare da un contratto a tempo parziale ad uno a tempo pieno.
Studiando gli esiti occupazionali a dodici mesi degli occupati a tempo parziale dell'aprile 1999, si rileva che su 1.600.000 lavoratori, il 16% non ha più un'occupazione, il 58% rimane a part-time, mentre il 25% ottiene un contratto full-time. La media delle ore lavorate è di 30 ore settimanali, con massimi di 36 ore per il 16% degli occupati a tempo parziale.

Riguardo al lavoro a termine, per l'Isfol tra il 2000 ed il 2001 è aumentato solo del 2,8%, perché il lavoro dipendente di questo tipo comprende in sé molti tipi di rapporti: il contratto a tempo determinato propriamente detto6 , l'apprendistato 7, l'interinale8 , il tirocinio9 , il contratto di formazione lavoro (CFL)10 , il job sharing11 ed anche il piano di inserimento professionale (sebbene quest'ultimo non sia un rapporto di lavoro in senso stretto).
La crescita del ricorso all'apprendistato ed ai CFL rivela una consistente battuta di arresto: i primi sono stati oggetto di una riforma "non metabolizzata" dalle imprese, invece, i secondi sono stati "troppo tenuti sotto osservazione" dagli organi di controllo comunitari. L'interinale è decollato, ma la sua incidenza sul lavoro a termine è ancora limitata con solo 40-50.000 unità l'anno. Gli stage possiedono grandi potenzialità, anche se al momento hanno scarsa consistenza numerica, mentre i piani di inserimento professionale stanno esaurendo la loro funzione. In ogni caso, da questi accordi scaturiscono alti livelli di soddisfazione del lavoro. Il lavoro a termine ha visto diminuire presenze maschili (- 29.000 unità), mentre la sua flessibilità ha portato un incremento delle presenze femminili di 69.000 unità nell'ultimo anno, tanto da arrivare al 51% del totale degli occupati a termine (contro il 46% di soltanto cinque anni fa).
Si riscontrano schemi più flessibili nel privato che nel pubblico, sebbene le cose stiano cambiando anche in questo ultimo settore.
Con più precisione ci riferiamo alla terza Legge Bassanini, la n. 191 del 1998, con la quale è stata sancita, grazie al ricorso solo in via sperimentale al telelavoro12 , la nuova era della flessibilità nel pubblico impiego.
Tuttavia, non bisogna trascurare i rischi del trend verso un lavoro part-time flessibile.
Questi possono riassumersi in un ritardo della sicurezza sociale nell'adeguarsi ai cambiamenti ed in un tentativo da parte di alcune aziende di sfuggire alle proprie responsabilità nei confronti dei dipendenti con questo tipo di contratto.
Inoltre, esistono rischi rilevanti per la competitività di un'impresa che nascono dalla sottovalutazione del capitale umano: a tutti è manifesta l'esistenza di un forte legame tra stabilità dell'impiego e formazione professionale.
Caratteristica dell'aumento della disoccupazione strutturale negli ultimi anni è la crescente "incompatibilità" tra i posti di lavoro perduti e le attuali possibilità di impiego, in termini sia di formazione, sia di esperienza.
Per quanto concerne più direttamente l'argomento qui trattato, il mismatch tra la domanda e l'offerta di lavoro legato all'ICT è anche dovuto alla differenza tra le professionalità ricercate dalle imprese e quelle offerte dalla manodopera in cerca di occupazione.
Conseguenze dirette del progresso tecnico sono cambiamenti strutturali e mutamenti della domanda di professionalità e qualificazione.
La tabella 2.4 rileva che l'incompatibilità nelle specializzazioni della forza lavoro proviene dai mutamenti nella composizione settoriale del prodotto e della stessa forza lavoro e pure dai mutamenti all'interno di ciascuna impresa, avvenuti per lo meno nel corso degli ultimi 50 anni.


Fonte: nostra elaborazione Boyer (1989)

Si devono assolutamente evitare esuberi di lavoratori con caratteristiche professionali obsolete.
In tal senso, è necessario un serio programma di "formazione permanente13" per evitare che le conoscenze acquisite sul campo (learning by doing) e quelle teoriche perdano di valore ed "impoveriscano il capitale umano del lavoratore e dell'impresa".
Per aumentare l'occupazione, nei comparti più deboli (la manutenzione informatica e le telecomunicazioni avanzate) più spesso colpiti negativamente dall'introduzione dell'innovazione tecnologica, si potrebbero predisporre programmi nel cui ambito imprese (o agenzie pubbliche) nazionali e di paesi europei, dopo essersi congiuntamente interessate alla formazione delle competenze specifiche necessarie per operare, si gemellino al fine di realizzarli, con utili per entrambe, in tempi ragionevolmente brevi.
Il sostegno per tali iniziative potrebbe provenire dagli enti locali, dai governi nazionali e dall'Unione Europea. Gli spostamenti settoriali dell'occupazione e le modifiche nella composizione delle specializzazioni della forza lavoro in quasi tutti i settori causano alcuni effetti aggregati.
In primo luogo, si prevede che continuerà la tendenza di lungo periodo all'incremento della presenza di "lavoratori dell'informazione" nel totale degli occupati. Oggi la flessibilità delle aziende, delle amministrazioni e delle reti di imprese dipende da una forza lavoro con un buon livello di istruzione generale, di addestramento e di aggiornamento e con nozioni di base nella gestione, elaborazione e trasmissione delle informazioni: a tal fine sono necessari un training14 ed un retraining coordinati dall'azienda per i dipendenti di tutti i livelli, nonché conoscenze elementari di informatica e buone capacità di comunicazione.
In secondo luogo, si sente la necessità di migliorare la qualità dell'istruzione, specialmente a favore dei più limitati, che spesso non riescono a adattarsi agli attuali modelli di esame e di insegnamento nelle classi.
La tecnologia dell'informazione (grazie ai sistemi multimediali, ai CD-ROM, alla realtà virtuale…) offre ora reali possibilità in questo senso attraverso chance di apprendimento a misura dell'allievo, nel pieno rispetto delle sue esigenze: è così che si sta diffondendo l'e-learning.
Infine, per innalzare il grado di flessibilità del sistema serve integrare uno standard medio di istruzione generale con una formazione intensiva sulle specializzazioni, in particolare quelle riguardanti l'ICT.
I professionisti dell'hardware e del software sono al centro della rivoluzione ICT, ma ad essi si affianca il bisogno parallelo, seppur meno sentito, di un certo volume di personale qualificato professionalmente a diversi livelli.
In conclusione, l'andamento della rivoluzione ICT sembra sempre più rivolto all'innalzamento crescente della formazione individuale (di base e specialistica) ed all'abbassamento della presenza dei lavoratori con una scarsa specializzazione e qualificazione. Di certo, un grado più alto di flessibilità può facilitare gli assestamenti strutturali, anche se deve essere possibile effettuare previsioni con una certa stabilità.

 


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