LA SCELTA DELL'INTERNAZIONALIZZAZIONE ED IL SUO NUOVO SIGNIFICATO

L'INTERNAZIONALIZZAZIONE DEI MERCATI: LA MINACCIA

La competitività del Distretto, come dimostrato da numerosi casi reali, sembra oggi dipendere fortemente dalla sua capacità di internazionalizzarsi.
Infatti, dai primi Anni Novanta i mercati internazionali stanno vivendo una continua espansione e sovrapposizione, provocando una concorrenza fortissima tra tutte le imprese, a prescindere dalla loro localizzazione geografica.
In passato, le imprese italiane, ed in particolare le imprese collocate nei DI, hanno avuto significativi successi nella penetrazione dei mercati esteri.
La crescita delle esportazioni dei DI nei settori leggeri o tradizionali, a prescindere dalla crisi congiunturale attuale, testimonia insieme la vitalità competitiva delle imprese e la loro capacità di muoversi sui mercati internazionali.

Tuttavia, oggi, internazionalizzazione ed esportazioni non sono più sinonimi.

Il modo con cui l'impresa si mantiene internazionale nella generazione dei vantaggi competitivi non coincide solo con l'esportazione.

Da un lato esportare non basta più: l'impresa deve impegnarsi all'estero in forme più complesse della semplice commercializzazione del prodotto finito.
Dall'altro lato, esportare può essere non significativo o non essenziale per acquisire uno status internazionale, world class, nella competizione transnazionale in tutti quei casi in cui le esportazioni non bastano ad intercettare i vantaggi competitivi che si generano nelle diverse aree mondiali.
Imprese che esportano poco possono cioè avere uno standard competitivo internazionale, mentre imprese che esportano molto possono non averlo.

Nella loro accezione tradizionale i DI si configuravano come catena di fornitura locali, chiuse ad apporti esterni nelle fasi a monte, e fortemente internazionalizzate nelle fasi terminali, di vendita ed assistenza ai clienti. Finora, sono stati i prodotti finiti ad andare, attraverso le imprese dotate di reti commerciali internazionali, sui mercati esterni.
Le lavorazioni a monte e le competenze relative sono invece sedimentate localmente, alimentando la competitività dei produttori a valle.
Si trattava, in parole povere di un modello export oriented: un modello che rischia oggi di trovarsi nell'occhio del ciclone, se non si adegua alle nuove forme di produzione transnazionale del valore.

DAL MERCATO CAPTIVE A QUELLO MONDIALE

Se si vogliono conseguire i vantaggi relativi ai differenziali nazionali ed alla divisione internazionale del lavoro cognitivo occorre che le imprese distrettuali di subfornitura, che operano a monte, comincino a guardare a mercati più estesi di quelli garantiti dai loro committenti locali, e che i committenti, che operano a valle, amplino l'orizzonte delle esportazioni per articolare la presenza internazionale in modo più pregnante.

In altre parole, occorre che i DI, in quanto sistemi collettivi di azione, agiscano essi stessi come attori dell'economia internazionale in formazione.
Da ciò dipende, in gran parte, la possibilità dei modelli di successo italiani di sopravvivere alle nuove regole della concorrenza internazionale.
Proprio di fronte al caso dell'impresa distrettuale, il nuovo modo di vedere l'internazionalizzazione chiarisce che il discorso va condotto a due livelli: da un lato occorre vedere la dinamica complessiva del Distretto (la sua internazionalizzazione come sistema, attraverso i diversi anelli della catena del valore che lo compongono); dall'altro occorre vedere la posizione delle singole imprese.

Tradizionalmente le imprese distrettuali agiscono su un mercato captive (il mercato interno distrettuale) e lasciano a poche imprese specializzate la commercializzazione del prodotto e le decisioni di marketing (design e progettazione del prodotto, segmentazione del mercato, fascia di prezzo-qualità).
Il Distretto come catena complessiva può dunque essere internazionalizzato dal punto di vista dell'export e può riversare il valore generato dall'espansione del mercato finale sui subfornitori e fornitori interni.
Ma il grado di internazionalizzazione delle imprese che operano sul mercato captive interno è piuttosto limitato e ciò costituisce una delle ragioni di fondo della debolezza della catena.
Di fronte alle pressioni concorrenziali, anche se è buona - in alcuni casi - la tenuta del mercato finale, elementi di forte evoluzione investono le fasi a monte della catena e i mercati captive che hanno finora assicurato la coesione sistemica del Distretto.
La posizione dell'impresa distrettuale, rispetto al sistema-Distretto, è particolarmente importante nel momento in cui cambia la divisione interna del lavoro nel Distretto perché alcune imprese aprono alle relazioni esterne e al mercato internazionale, scavalcando i precedenti rapporti di complementarità interna.
L'organizzazione precedente rischia così di essere scompaginata, sotto la pressione di diversi fattori evolutivi, tra cui l'internazionalizzazione più accelerata di alcuni "anelli" della catena distrettuale.
Viene in questo modo al pettine la questione irrisolta di quel peculiare tipo di divisione del lavoro su basi locali che si è realizzata in Italia nel Distretto, in competizione con la grande impresa fordista ma anche, per alcuni aspetti ad imitazione dei modelli prevalenti di produzione fordista (integrazione verticale delle attività).
Nei Distretti, l'integrazione verticale non è proprietaria, ma si realizza attraverso una fitta rete di divisione del lavoro, sul mercato locale, promossa e regolata da meccanismi di coesione e scambio sociale invece che da meccanismi autoritativi.
Il Distretto ha così conseguito la maggior parte dei vantaggi ottenibili dall'integrazione verticale (in loco) delle attività, sia pure con qualche inconveniente dovuto alla difficoltà di programmare la catena della fornitura locale, insieme ai vantaggi della flessibilità, della varietà, della molteplicità delle intelligenze imprenditoriali messe al lavoro.

Ma ha conservato anche gli inconvenienti del modello integrato, che ricerca il mercato più esteso possibile per i prodotti finiti, mentre "internalizza" (in loco) le fasi e i servizi a monte.
Queste fasi e servizi che nascono dalla domanda locale non possono tuttavia essere a lungo confinati in questo ruolo captive rispetto alle esigenze dei committenti locali e divengono invece, ad un certo punto, anelli "deboli" della catena, man mano che le strategie dei committenti a valle puntano su altre localizzazioni e, probabilmente, su altre fonti di fornitura (proprie filiali che auto-producono componenti e macchine all'estero o nuovi fornitori, spesso "allevati" nei paesi di delocalizzazione.

 


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